2017
Appello ai birrai: fermiamoci, ragioniamo, altrimenti perderemo tutto quanto di buono si è fatto in 21 anni… e ancora: “L’esercito delle birre artigianali italiane ha colonizzato il ceto medio-alto della nostra ristorazione, pizzerie gourmet comprese. Non c’è scampo. E non c’è cognizione di causa. Né da parte dei ristoratori, che tengono in lista qualche birra per onor di firma, lasciandosi fanciullescamente trascinare dal flusso delle mode. Né da parte del consumatore medio, alle prese, tra l’altro, con una infiorescenza iperbolica di etichette nuove nuovissime appena nate e già in via d’estinzione”
Valerio M. Visintin così sentenzia, nella sua rubrica su corriere.it, in un articolo dal titolo ancora più provocatorio “L’era della birra al calzino (ma artigianale)” dove compaiono frasi come questa:
“Per tutte queste ragioni, trovare un prodotto artigianale italiano buono, privo di difetti, stabile, equilibrato, digeribile, a un prezzo congruo è un terno al Lotto”
o questa:
“Quand’anche ci si imbatte in birre di discreta qualità, quindi, il pensiero corre, fatalmente, ai prodotti artigianali di riferimento. Se devo bermi una blond o una tripel, per capirci, tanto vale scegliere un artigiano belga. Berreste volentieri un vino in “barolo style” prodotto in Germania o in Danimarca?”
Risponde a queste affermazioni Eugenio Signoroni di SlowWine:
…io non credo però, che trovare un prodotto artigianale buono, privo di difetti, stabile… sia un terno al Lotto. Credo al contrario che, oggi, l’Italia esprima una qualità media diffusa molto alta. Credo che proprio sul tema della stabilità i produttori italiani abbiano fatto negli ultimi anni notevoli passi avanti. Certo il percorso di miglioramento è ancora lungo e capita di trovare birre con qualche problema ma siamo sulla strada giusta. E credo che quella che Visintin chiama forza tecnologica ed economica necessaria per controllare analiticamente la qualità delle materie prime e persino per garantirne la conservazione ideale non sia la questione in ballo.Le materie prime dei piccoli non sono peggiori di quelle dell’industria, anzi, e sulla conservazione l’industria ne esce spesso meglio perché ha scelto la strada più efficace (pastorizzazione o microfiltrazione) che non significa però sia la migliore per il prodotto.
Purtroppo esiste un numero ancora troppo alto di persone che producono (e vendono) birra solo perché qualche amico un paio di volte gli ha detto che le prove casalinghe fatte nel garage e portate alla grigliata erano buonissime. O peggio ancora che produce solo perché crede nel sillogismo per cui visto che tutti parlano di birra artigianale allora con questa si fa una valanga di soldi. Ma il problema non è qui. E non è nemmeno nel fatto che le birre dei nostri siano interpretazioni di stili altrui. Mi spiace per Visintin ma il paragone con il Barolo non sta in piedi. Se, infatti, come lui stesso dice nella birra il legame con il territorio è minimo allora questo deve valere sempre.
Nel vino il territorio ha un ruolo centrale. In Germania o in Danimarca non possono fare un Barolo non perché non abbiano il know how, o il nebbiolo, ma perché non hanno le colline di Barolo o di La Morra, con le loro terre e il loro clima. Nella birra invece, escluso un ridottissimo numero di tipologie, non è così. Una Ipa non ha bisogno del terreno di Burton per essere riprodotta. Mi si dirà che ha bisogno dell’acqua di Burton. Sì, ma è dal XIX secolo che esistono modi per riprodurre l’acqua di Burton ovunque nel mondo. Ma non solo. Nella birra l’ispirazione a stili di altri luoghi e altre culture è stata spesso alla base della nascita di quelli che oggi consideriamo classici radicati in un luogo. Le Red Flemish delle Fiandre forse non ci sarebbero se i birrai del Belgio non avessero preso in prestito dai birrai inglesi il modo di maturare le porter in grandi botti. E le Ipa non esisterebbero più se i birrifici americani a metà degli anni ’70 del Novecento non le avessero reinterpretate con i loro luppoli ridando vitalità allo stile. E l’elenco potrebbe andare avanti ancora a lungo e potrebbe un giorno avere qualche esempio italiano, ammesso e non concesso che non ne esistano già.
Il problema, come detto, è altrove. Innanzitutto nel fatto che la birra artigianale, purtroppo, da più parti viene interpretata come l’eccezione e in quanto tale deve essere strana, eccentrica, con qualcosa di diverso dallo standard. La pensano così molti di quei birricoli di cui parla Visintin che se non hanno nulla di nuovo si annoiano e non possono scrivere di questo o di quell’assaggio (magari in modo negativo) sulla loro pagina Facebook. La pensano così molti ristoratori che nella birra artigianale vedono solo un prodotto in più da mettere nelle loro carte e più il prodotto è strano più sono felici, perché almeno possono giustificare i 3, 4 o 10 euro in più che quella birra costa al consumatore finale che altrimenti non sono in grado di spiegare.
E poi il problema è nel fatto che manca ancora una cultura diffusa.
Talvolta (non così frequentemente per fortuna) manca nei birrai. Poi manca nei bevitori, anche in alcuni dei più appassionati, che pensano di sapere solo perché hanno bevuto un po’ di roba in giro per il mondo. Ma soprattutto manca in una parte importante di chi la birra la vende e la propone. Se si escludono quelli che hanno posto le basi per la crescita di questo movimento e un po’ di loro figli e nipoti la situazione è di una diffusa mancanza di conoscenza.
I ristoratori (non tutti, ne esistono di bravissimi) sono troppo spesso pigri, vogliono una carta delle birre solo perché fa figo. E poi non sanno cosa raccontare. Non sanno cosa proporre. Scelgono le birre dal birrificio più vicino o da quello che gli propone il prezzo più basso e non si pongono alcune domande invece fondamentali: andranno bene queste birre con i piatti che propongo? Saranno adatte alla mia clientela?
Ristoratori, un appello, se volete avere una carta delle birre sceglietele con la stessa attenzione con cui scegliete i vini e il resto delle materie prime. Vale ovviamente solo per quelli che sono attenti a vini e materie prime. Cercate quindi di avere delle birre buone, ben fatte, adatte a quello che proponete. Preoccupatevi sempre di avere qualche proposta più semplice, per chi vuole semplicemente una birra e poi, se credete di saperle raccontare e di avere una clientela curiosa, mettete anche un paio di birre più complesse. E chiedete ai birrai come sono queste birre, quali caratteristiche hanno. E poi raccontate tutto questo ai vostri clienti, prima però non dopo. Con parole semplici che gli servano a capire davvero cosa hanno ordinato.
Birrai, un appello, pretendete questo da coloro ai quali vendete le vostre birre. Chiedetegli anche di conservarle bene. (Vale solo per quei birrai che producono con attenzione). Raccontate le vostre birre per quello che sono veramente. Non cercate di piazzare tutta la gamma a tutti. Altrimenti saranno costretti a spacciarle a tutti i consumatori deludendoli e dando un’immagine sbagliata non solo del vostro birrificio, ma di tutto il mondo della birra artigianale. Fatelo. Altrimenti Visintin e quelli che la pensano come lui (e sono purtroppo molti) finiranno per avere ragione su tutta la linea. E quanto di buono costruito in questi 21 anni sembrerà la fissazione di un gruppo di invasati.
Io mi sento di appoggiare in pieno le affermazioni di Eugenio ed in particolare per chi vende birre artigianali deve sapere che vanno selezionate e testate bene in modo da avere a listino prodotti davvero particolari. Solo così è possibile proporre prodotti di alta qualità. Non ultimo poi, vanno assolutamente ‘spiegate’ e valorizzate ai clienti in modo che sappiano che ciò che acquistano può dar loro grande soddisfazione. E creare cultura, non moda.